Traduzione e Interpretazione

Quando la lingua è un mezzo

Si è conclusa l’altro ieri l’Italy Cup 2011 e in tutta onestà mi sembra che siano trascorse settimane dall’ultimo post che ho scritto. Sono state infatti giornate talmente piene ed intense che è difficile credere che tutto sia successo nell’arco di soli 6 giorni.

Tutto è iniziato con la trasferta domenicale a Malpensa: una levataccia alle 5 del mattino per essere in aeroporto alle 11. La solita trafila con le valige (quest’anno, che la mia squadra volava con l’Iberia, ne è stata persa solo una, che è stata spedita in hotel quattro giorni dopo l’arrivo, per la disperazione del povero genitore senza più vestiti). Poi il ritorno in Romagna, nell’hotel bellariese in cui la stessa squadra aveva alloggiato anche due anni fa.

Il lunedì è stato il giorno della cerimonia di apertura allo stadio Moretti di Cesenatico: lo staff di Eurosportring e del Bakia calcio ha ricordato alle squadre il senso di un torneo all’insegna della sana e leale competizione. Poi c’è stato il fischio d’inizio, nel mio caso più di uno a dire il vero. Dovendo seguire due squadre under 17, una maschile e una femminile, mi sono divisa tra il campo del Peep di Cesenatico, quello di San Mauro Mare e lo stadio Moretti. Con i genitori al seguito, ho organizzato la gita a Venezia del giorno dopo: non dovendo giocare, le ragazze avevano infatti manifestato il desiderio di andare a vedere la laguna (vi dico, en passant, che il dressing code per entrare a San Marco è piuttosto rigido e che è meglio evitare canotte o pantaloncini sopra il ginocchio) .

Avendo spedito 21 persone a Venezia, il martedì ho vissuto una giornata piuttosto tranquilla. Una partita la mattina e una al pomeriggio, con il tempo di tornare a casa per fare qualche altro lavoretto. Se avessi saputo che mi aspettava di tutto nei due giorni successivi credo che avrei approfittato delle orette di pausa per andarmene a letto. Ma chi poteva immaginare…

Il mercoledì mattina è stato scandito da 3 partite, due delle femmine, che a questo punto erano già visibilmente le prime classificate del loro girone, e una dei maschi, dei quali non si poteva certo dire altrettanto. Se non altro sono stati la tifoseria più animata e leale di tutto il torneo: oltre ai cori con tanto di balletti per le loro ragazze e per me, non hanno lesinato gli applausi per gli arbitri e per le giocatrici delle squadre avversarie! Nel pomeriggio ho avuto qualche ora libera, in prospettiva di accompagnare poi le squadre alla festa prevista per la sera al parco acquatico Atlantica. Le cose hanno però preso una piega diversa…
Quando sono arrivata in hotel per radunare la squadra e portarla ad Atlantica è emerso che uno dei ragazzi accusava dei dolori all’addome. Uno dei genitori accompagnatori, infermiere, sospettava un principio di appendicite. Anziché andare alla festa, sono quindi andata al Pronto Soccorso di Cesenatico con uno degli allenatori e il ragazzo, perché sapevo che a quell’ora (20.30) non c’era più un interprete reperibile.

Non entro nei dettagli, per motivi di privacy e soprattutto per sensibilità nei confronti di questo ragazzo e della sua famiglia. Vi dico solo che nei due giorni successivi ho pienamente assunto quel ruolo di assistenza di cui parlavo la volta scorsa, quello in cui il confine tra la professione e i rapporti umani si assottiglia fino a sparire del tutto. Dopo una visita pressoché immediata e alcune analisi del sangue siamo stati caricati in ambulanza, direzione ospedale di Cesena. Altrettanto immediata è stata l’ecografia dell’addome in Pronto Soccorso, dove non volevano farmi entrare per via della mia gravidanza. Sono stata alla larga dal reparto radiologia, ma sono comunque entrata in sala d’aspetto con una mascherina per assicurarmi che non ci fossero intoppi comunicativi, perché anche a Cesena, a quell’ora (21.30), non c’era interprete reperibile. Sempre con la mascherina ho accompagnato ragazzo, barellista e allenatore in chirurgia d’urgenza. Nel frattempo ci ha raggiunti anche mio marito, perché avremmo avuto bisogno di un passaggio per tornare a casa. Purtroppo il chirurgo di turno era appena entrato in sala operatoria e abbiamo dovuto aspettare più di due ore e mezzo. Quando si è liberato e ha visitato il ragazzo si è deciso per il suo ricovero. Erano all’incirca le 00.30. Ho aiutato a riempire i moduli, garantito la mia reperibilità, deciso con l’allenatore come gestire le ore successive. Nel giro di un’ora l’allenatore, mio marito ed io abbiamo lasciato l’ospedale. Alle 2.00 eravamo a letto. La sveglia era prevista per le 7.00, perché il giovedì mattina alle 9.00 avrebbero giocato i maschi, poi alle 11.00 le femmine. Ma non c’è stato bisogno della sveglia, perché non ho chiuso occhio.

Al termine delle partite del giovedì mattina, l’allenatore, una mamma accompagnatrice ed io siamo tornati in ospedale per portare il necessario al ragazzo e per verificare gli esiti degli esami. I suoi compagni di squadra gli avevano preparato una borsa. Anche io ci ho messo qualcosa: forchetta, coltello, cucchiaio, tovaglietta e tovagliolo, più shampoo e sapone. A differenza dell’allenatore, sapevo infatti che in Italia in genere questi oggetti vengono portati da casa. Complice la gravidanza e la tensione della situazione, a quel punto in caduta libera, alle 15 ero esausta e abbiamo convenuto con l’allenatore che sarei tornata a casa a riposare un po’ per poi tornare in ospedale con altri due genitori che avrebbero dato il cambio nelle ore successive. In realtà non ho avuto il tempo di riposare, perché mi sono preoccupata di mandare ai genitori del ragazzo, che dovevano assolutamente prendere il primo volo dagli USA, le informazioni necessarie per la copertura assicurativa e per i trasporti dall’aeroporto di Milano Malpensa all’ospedale di Cesena. Non vi dico la rabbia che ho provato quando mi sono accorta che il sito dell’ospedale Bufalini non era tradotto e che le indicazioni sul come raggiungerlo erano solo in Italiano. Ho optato per la guida Michelin in inglese per l’itinerario in auto, e scaricato gli orari dei treni. Mi sono coricata 1 ora. Ho poi subito richiamato l’ospedale per accertarmi delle evoluzioni. Quando l’allenatore mi ha detto che si era deciso di intervenire d’urgenza mi sono precipitata al campo in cui le ragazze giocavano la loro finalissima per caricare i due genitori che avrebbero fatto il turno successivo. Quando sono arrivata in ospedale il ragazzo era già sotto i ferri. Dopo due ore circa uno dei chirurghi è uscito dal blocco operatorio per aggiornarci. Solo a quel punto loro e noi abbiamo scoperto di che si trattasse. Visto che ci avevo prospettato altre 2 o 3 ore di intervento, si è deciso di tornare in hotel: l’allenatore, la mamma che era stata in ospedale fino ad allora, mio marito (che vista la mia stanchezza non si fidava a lasciarmi guidare) ed io.

Non ho avuto pace fino a quando il ragazzo non è uscito dalla sala operatoria. E non oso immaginare cosa abbiano provato i genitori in quelle lunghe ore di attesa, uno da oltre oceano e l’altro in volo. Posso solo dirvi che aldilà della tante critiche che spesso si sentono, in questo caso di emergenza il sistema sanitario è stato iper rapido ed efficiente. La squadra del reparto di chirurgia d’urgenza si è mobilitata, nel suo insieme, per gestire l’urgenza, dimostrando grandi doti professionali, linguistiche ed umane. Lo stesso non posso dire del servizio di mediazione, che nel momento del bisogno non era reperibile e che si è attivato solo il giorno dopo l’intervento. Non attribuisco la responsabilità ai mediatori e agli interpreti, perché con ogni probabilità non sono stati nemmeno avvisati dal reparto e perché la scarsa quantità di stranieri a Cesena probabilmente non giustifica l’assunzione di figure disponibili o reperibili 24 ore su 24. Ma se mai mi dovesse ricapitare una situazione del genere, cosa che davvero non mi auguro perché è stata emotivamente molto dura, con ogni probabilità porterei il paziente direttamente all’ospedale di Rimini, dove gli interpreti lavorano e sono reperibili 24 ore su 24. Perché non è ammissibile che una donna incinta debba rimanere in ospedale fino all’una e mezza di notte per assicurare un servizio di interpretazione che teoricamente dovrebbe essere garantito dalla struttura.

Fermo restando che probabilmente sarei rimasta comunque, perché a quel punto ero troppo coinvolta. Il limite tra professione e rapporti umani era inevitabilmente varcato, per me come per mio marito. Ed umanamente mi dico, anche alla luce delle mie ricerche di dottorato sulla formazione degli interpreti e mediatori sanitari, che in queste situazioni serve molto di più di un interprete che traduca. Serve una figura molto più complessa, quella che è tuttora in corso di definizione, che possa ad esempio essere reperibile telefonicamente, che segua il paziente nelle fasi pre e post operatorie, che si occupi della modulistica aiutando gli stranieri a riempirla, che conosca la zona e il funzionamento del sistema per orientare lo straniero ed indirizzarlo verso farmacie, sanitarie, uffici etc. Serve una componente assistenziale in cui la lingua è il mezzo e non il fine, in cui professionalità ed umanità si intrecciano per assicurare la salute del paziente lungo tutto il suo percorso di cura.

PS Le ragazze hanno conquistato il primo posto nella loro categoria (G17) e anche questa volta sono scesa in campo, alla cerimonia di premiazione che si è tenuta venerdì allo stadio Moretti, per alzare la coppa insieme a loro.

One Response to “Quando la lingua è un mezzo”

  1. chiara scrive:

    e brava Nati! :-D

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