Traduzione e Interpretazione

Codici etici e standard professionali

Le pagine dei blog hanno spesso la pecca di essere immerse nel luogo e di raccontarlo in presa diretta. Ciò spesso permette di restituire la “freschezza di ciò che si va facendo, ma non la complessità della cosa” (Nasi 2011: 107). Per questo mi sono presa due settimane di riflessione prima di tornare all’esperienza vissuta in occasione dell’Italy Cup 2011. Dopo averne fatto una narrazione pressoché immediata, avevo bisogno di distaccarmene emotivamente, di ripensare alle decisioni prese, nella foga del momento, in un ottica più prescrittiva.

Complice il manuale di Bancroft, M. e L. Rubio-Fitzpatrick (2011) The community Interpreter: professional interpreter training for bilingual staff and community interpreters, mi sono domandata ex post cosa sarebbe stato giusto fare, quale sarebbe stato il confine della mia professione di interprete.

Non vi nascondo che mi sono resa conto sin da subito di come, da molti punti di vista, io non sia stata pienamente professionale. Mi sono coinvolta emotivamente, agendo non solo da mediatore ma anche in prima persona (offrendo un servizio taxi, portando il necessario al ragazzo etc.); non mi sono limitata a tradurre ma ho prestato ore di assistenza, sia al ragazzo in ospedale che ai genitori (prima oltreoceano poi in ospedale anche loro); una volta ufficialmente concluso il mio incarico e partita la squadra ho continuato a visitare il malato con regolarità (in genere un giorno sì e uno no), provvedendo di volta in volta ai suoi bisogni pratici (un piccolo ventilatore, delle salviette profumate etc.).

Eppure, quando è stato il momento dei saluti (a dire il vero molto recente perché la degenza si è protratta per due settimane), sono stata ringraziata come colei senza il cui aiuto le cose non avrebbero potuto andare a finire così bene (cito: “there is no way any of this could have gone as well as it did without you”).

E così mi chiedo, e lo chiedo a voi al contempo, cosa sia davvero giusto fare, o meglio essere, quando si fa l’interprete-mediatore in ambito sanitario? Davvero nella pratica bisognerebbe orientarsi alle regole fissate nei codici deontologici e alle loro applicazioni descritte in quelli che Bancroft e Rubio-Fitzpatrick chiamano standards of practice? O il fine ultimo dovrebbe essere la salute del paziente, e questo giustificare mezzi anche non propriamente “professionali” che seguono un’etica della “responsabilità” piuttosto che una della” convinzione”? (Weber 2006: 73).

PS I testi citati sono tutti nella sezione References. Quello di Nasi è contenuto in Bellati (2011).

One Response to “Codici etici e standard professionali”

  1. Natacha scrive:

    A proposito di cura delle persone.. vi segnalo questo articoletto scritto da Franco Nasi: http://www.doppiozero.com/dossier/disunita-italiana/albinea-paesi-e-citta

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