Traduzione e Interpretazione

Lezioni del 22 maggio: Nasi-Hornung

La malinconia del traduttore

La malinconia del traduttore

10.00-13.00: Franco Nasi, Traduzione letteraria
14.00-17.00: Antonie Hornung, Testualità contrastiva

Oggi l’impresa è davvero ardua e spero di rendere giustizia ai professori che ci hanno “interpellati” con i loro contenuti in fieri.

Che lo chiamiate work in progress, ricerca in itinere, movimento cataforico o streben di romantica memoria, il denominatore comune di questa giornata è stato un anelito verso un obiettivo mai totalmente raggiungibile, un guardare oltre, un desiderio nel senso leopardiano del termine (de sidera nel senso di voglia di stelle, come diceva qualcuno).

Così, almeno, io ho interpretato i “molti dubbi e poche certezze” di Franco Nasi o il processo di apprendimento per immersione auspicato dalla Hornung. Entrambi padroni della loro materia, hanno ambedue trasmesso la non finitezza delle loro conclusioni e reso l’idea del fermento che è alla base di ricerche in continua evoluzione.

Con stili diversi ma con pari entusiasmo e franchezza, questi due professori ci hanno fatto “respirare” il senso del loro lavoro e della loro fatica.

Come Sisifo, il traduttore spinge il testo nell’altra lingua, nella consapevolezza che la sua traduzione potrà sempre essere migliorata, perché l’imperfezione fa parte della traduzione.

Di fronte a questa sorte dolce amara, due sono i sentimenti che animano il traduttore.

Da una parte la malinconia di fronte alla non finitezza del suo lavoro, visto che, come diceva anche il francese Pierre Dauzat qualche mese fa “Il faut être malheureux quand on est traducteurs car ce n’est toujours qu’une solution provisoire” (leggere, il che è un monito sia a me stessa che a voi, “La malinconia del traduttore” di Nasi).

Dall’altra la felicità del traduttore, che se non è tanto stupido da pretendere di fare la traduzione perfetta, riesce ad accettare il suo destino e ad esserne felice. Tanto che Nasi, in un altro volume da leggere assolutamente, “Poetiche in transito”, riprende l’immagine che Camus ci dà di un Sisifo felice. Stupido è chi pensa di superare la morte. Felice è chi accetta che questa fa parte della vita, così come l’imperfezione della traduzione, e sereno vive il suo destino.

Mi spiace davvero perché non riesco a rendere lo spessore del contributo di Nasi, come sicuramente non riuscirò a rendere la simpatica immediatezza di quello della Hornung.

Era come se tutto fosse denso di mille incisi, di mille possibili piste di riflessione. Era come un testo dove tanto è nascosto tra le righe, e Nasi stesso si perdeva svelando il non detto di un’affermazione, di una conclusione, di una ricerca. Così il richiamo al suo percorso di studi è esploso nel riferimento al grande Anceschi, suo maestro, che a sua volta ha portato a Coleridge, a Wordsworth, a Berman.

Seguendo un po’ la serendipity del suo pensiero e un po’ le slide proposte per un convegno che si è tenuto la settimana scorsa alla Northwestern University di Chicago, Nasi ci ha dato una gran voglia di leggere. Oltre ai due volumi succitati, da mettere in programma sono:

di Berman,
La prova dell’estraneo
L’albergo nella lontananza
Traduzione e Critica produttiva

di Billy Collins,
A vela, in solitaria, intorno alla stanza

Devo ovviamente recuperarli nella versione originale (eccezion fatta per il libro di Billy Collins che ha la traduzione di Nasi a fronte), visto che come traduttrice sono ben consapevole di quel che si perde in traduzione. Ammetto però che il grande Dante non mi vede del tutto d’accordo quando afferma che:

“Sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra trasmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia” (Convivio)

Mentre sono totalmente sulla stessa linea d’onda del Calvino che scrive:

“Il traduttore letterario [e non solo quello, secondo me] è colui che mette in gioco tutto se stesso per tradurre l’intraducibile […] lavora proprio sul margine intraducibile di ogni lingua”

Nasi, riprendendo queste affermazioni e citando Venuti, non ha fatto altro che confermare quello che vado sostenendo per l’interpretazione, ovvero che l’interprete non è affatto invisibile. Tutt’altro.

La traduzione “puzza del sudore del traduttore” (per riprendere l’immagine di Berman) e solo l’esperienza della traduzione porta a problematizzare un processo che non può essere descritto solo in termini di “reversibilità”. L’Eco di “Dire quasi la stessa cosa” pecca forse nel limitare il discorso all’aspetto semantico, che per ovvie ragioni è predominante nella sua riflessione. Ma chi ha tradotto poesia o letteratura sa bene che c’è ben altro e che talvolta la semantica va sacrificata in nome di un ritmo, di una musica che va preservata nella traduzione.

La mia ultima esperienza di traduttrice letteraria, in cui ho avuto la fortuna di confrontarmi con l’autore di queste poesie straordinarie, mi ha proprio dimostrato questo. Fu lui stesso a dirmi, infatti, che avrei dovuto privilegiare le assonanze e le rime interne anche a discapito delle parole.

E a proposito di poesia, se mai avrò tempo mi leggerò anche qualcosa del poeta performer inglese Roger McGough, parimenti tradotto da Nasi. La sua poesia che riproduce una partita di Tennis mi ha, infatti, colpita profondamente.

Così come mi ha colpita l’ultima parte della lezione, quella dedicata alla traduzione endolinguistica, cioè dall’italiano all’italiano.

Ma come? Penserete voi. Ebbene sì, ne esistono diversi casi nella nostra letteratura, molti dei quali mi erano totalmente sconosciuti.

Sapevo, ad esempio, che Calvino aveva riscritto L’Orlando Furioso dell’Ariosto, ma non sapevo che il Boiardo, che tra l’altro era originario di vicino a Modena, era stato tradotto in fiorentino e che per 300 anni era stato tramandato proprio nella versione fiorentina.

Sapevate voi di tutte le traduzioni del Boccaccio? Io no. Quindi è stata un’occasione d’oro per vedere, nello specchio della sola lingua italiana, le difficoltà che emergono in ogni trasferimento interlinguistico. Un esempio, per tutte, la difficoltà di non cadere nel tipico errore di presunzione del traduttore, quello di chi, di fronte ad una parola come “brigante” nel Decameron pensa al “ladro”, al “furfante”. Quando invece a quel tempo il brigante era colui che apparteneva alla brigata, quindi uno di compagnia.

Potrei andare avanti secoli, perché come dicevo prima la lezione di Nasi è esplosa, alla Bergson, in mille direzioni. But I’ll cut the story short, raccontandovi in breve quello che è venuto fuori nella chiacchierata con la Hornung.

Che dire?

Un fertile confronto tra un’entusiasta ed effervescente docente e un gruppo di dottorandi che, diversamente da quanto succede in molte scuole di dottorato, hanno davvero creato un gruppo, felici di condividere le proprie ricerche in fieri e gli alti e bassi di un’avventura formativa.

Sarà la decima volta che ciascuno di noi sente la presentazione del collega, ma ogni volta c’è uno spunto in più. E mai manca l’ascolto e il rispetto per la condivisa non finitezza del lavoro.

Non è mancato da parte nostra, che per l’ennesima volta ci siamo presentati, e non è mancato da parte della Hornung, che ha davvero cercato di interagire con i nostri percorsi e di rapportarli ai suoi.

Perché più d’una sono le linee direttrici delle sue ricerche.

C’è sicuramente una componente didattica, sulla quale si è soffermata mettendo in evidenza come spesso nell’insegnamento non si rispetti il timelag tra la capacità ricettiva di uno studente e la sua capacità produttiva. La famosa dicotomia tra conoscenza passiva e attiva, tra competence e performance, tra due fasi dell’apprendimento (o studio) di una lingua che non sempre (o quasi mai) vanno di pari passo.

Sempre della didattica fa parte una presa di posizione abbastanza decisa della Hornung in favore dell’insegnamento immersivo. Tanto che, povero il mio fidanzato, ho deciso di tornare a casa e parlare solo in francese. Ce la farò? E se sì, quanto resisterò?

Sul fronte della traduzione, la Hornung ha citato l’opera di Clyne e l’importanza di misurarsi con dei Vergleightexte, ovvero dei testi “paralleli” che trattino dello stesso argomento nella lingua d’arrivo e che permettano di tradurre usando le espressioni e le strutture che un nativo avrebbe usato in quel determinato genere testuale.

A questo proposito la Hornung ci ha dato un suggerimento a mio avviso utilissimo che condivido: se abbiamo bisogno di scrivere un abstract, buona norma è prendere un buon abstract nella lingua che ci interessa e provare a riempire la sua struttura con i nostri contenuti. Provare per credere!

Concludo con una riflessione che ha acceso il nostro interesse, visto che tutti e 5 noi dottorandi in un qualche modo ci confrontiamo con l’inglese. Tre sono i livelli di un testo, il macro, il meso e il micro. Se la traduzione si limita al microlivello, cioè alle parole, quello che si ottiene è generalmente una pessima traduzione, una che non tiene conto della struttura delle frasi e del pensiero in un genere specifico. Così tradotto in italiano, un testo inglese risulterà elementare, e viceversa un testo italiano tradotto in inglese artificioso e pomposo.

Quante volte mi sono sentita dire, in attiva, “Keep It Short and Simple” (KISS), perché altrimenti un anglofono non ti segue e non ti capisce. Riflettevamo, anche con il libro di Vincent Marrelli che io avevo a portata di mano, Words in the way of truth, su come questo diverso habitus dell’inglese abbia radici profonde, che affondano nella dicotomia tra “the honest, down-to-earth, frank-speaking, plain-speaking Anglo-Saxon, as opposed to the effete, sophisticated, rhetorical, and so forth, upper class Norman” (Vincent Marrelli, 2004: 139).

Ora, vediamo di pensarci ogni volta che traduciamo o interpretiamo! Non dico di spiegarlo ai nostri clienti, il che è in generale una causa persa, ma almeno facciamo in modo di tenere a mente per chi parliamo quando andiamo verso l’inglese.

Per il francese è tutta un’altra storia…

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