Traduzione e Interpretazione

The concept of “dialogue” in cross-linguistic and cross-cultural perspective by Anna Wierzbicka

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Si tratta di un articolo sui generis, dove l’autrice, dopo aver passato in rassegna tutti I significati e le definizioni di “dialogo” riflette sulla sua diffusione globale e su come la valenza che gli si attribuisce abbia dei connotati culturali.

Aldilà del fatto che la fraseologia e le collocazioni della parola dialogo siano pressoché sovrapponibili in inglese e francese, in ogni lingua il vocabolario riflette l’esperienza collettiva e il pensiero dei suoi locutori. Questo fa sì che, nonostante una fraseologia parallela:

ENGLISH: Constructive dialogue, productive dialogue, ongoing dialogue, constant dialogue, to keep up a dialogue (with), to maintain a dialogue (with), to establish a dialogue (with), to resume a dialogue (with), to promote dialogue (with), to enter into dialogue (with), to be in dialogue (with), to open a dialogue (with), to open the door to a dialogue (with), to get a dialogue going (with), to break off the dialogue (with), to suspend the dialogue (with) and so on.

FRANCAIS: s’engager dans la voie du dialogue, participer au dialogue, entretenir un dialogue, rompre/interrompre un dialogue, rétablir le dialogue, renouer/relancer le dialogue, maintenir le dialogue, retour au dialogue, poursuite du dialogue, reprendre le dialogue, dialogue social, tentative de dialogue, un vrai dialogue, dialogue interrompu, encourager un dialogue, fruit d’un dialogue véritable, rupture du dialogue, espace de dialogue et ainsi de suite.

Inglese e francese differiscano a tal punto che, sempre rimanendo nella stessa area semantica, in inglese si può dire “to give a talk” mentre in francese si dovrà optare per “faire une communication” o “faire un exposé”, perché l’abitudine tipicamente anglosassone di fare delle presentazioni pubbliche informali non è altrettanto diffusa in Francia, dove il tutto ha carattere più formale.

Ora, visto e considerato il fatto che certi concetti sono intimamente legati alla cultura dei locutori e che le culture sono incommensurabili tra loro, afferma l’autrice, quando sii traducono tali concetti da una lingua e da una cultura all’altra si corre il rischio di usare una parola, ad esempio italiana, come “dialogo”, per spiegare un concetto russo e di sovrapporre il bagaglio di significati che la parola “dialogo” ha in Italia con quelli che ha in Russia, perdendo quindi il significato originario che uno scrittore russo voleva dare al suo testo.

E qui l’autrice cita l’esempio di Bakhtin, le cui idee “have been extremely influential in the West, but they have often been misunderstood – partly because they have been interpreted through the prism of English (and French) words like dialogue” (2006: 684).

Onde evitare questo problema, l’autrice [e qui onestamente mi discosto dalle sue posizioni] propone di lavorare con il Natural Semantic Metalanguage (NSM). Senza entrare nel dettaglio di questa metalingua semantica naturale, mi limito a dirvi che essa sta alla lingua come la tavola periodica degli elementi di Mendeleev sta alla chimica. In sostanza si tratta di una sessantina di elementi semantici universali che, combinati, dovrebbero spiegare tutte le parole e i concetti culturalmente connotati come dialogo.

Il condizionale è de mise, perché se anche l’idea è affascinante, quando andate a vedere quante parole ci vogliono per spiegare il concetto di “dialogo”, vi rendete conto di quanto la cosa sia infattibile.

Quindi, ricapitolando, l’articolo merita di essere letto ma con occhio critico. E le conclusioni che trae vanno meditate con calma:

As the explication of dialogue presented in this article shows, “dialogue” requires a particular set of assumptions, motivations, attitudes (to the subject matter and to one’s interlocutors), and a particular modus operandi (including a willingness to accept an extended time frame).
Above all, “dialogue” requires an effort to make ourselves understood, as well as try to understand, and here, the “right” attitudes, motivations, and so on, will not suffice. As NSM researchers have tried to show in many publications […] a search for mutual understanding may require a search for a new language, intelligible to all partners […] When we try to engage in dialogue, we need, first of all, to try to explain our own position. To do this effectively, we may need to strip ourselves of the complex language to which we are accustomed and which are normally taken for granted.
The closer the explanations get to the level of simple and universal human concepts the more comprehensible they will be to outsiders. If we as members of a particular group (cultural, religious, or any other) try to speak to others our own terminology and our complex but familiar constructs we will be talking to ourselves. To promote dialogue we will do well to promote the use of simple and universal human concepts.
(2006: 700-701)

E qui, onestamente, l’autrice l’ha detta giusta. Anche pensando alla mia tesi di PhD, a prescindere dalla lingua in cui la scriverò, se davvero voglio far arrivare il messaggio a mediatori, pazienti ed operatori sanitari, dovrò parlare la loro lingua, non quella del mondo accademico. Food for though, tanto per cambiare :)

Wierzbicka, A. (2006). “The concept of “dialogue” in cross-linguistic and cross-cultural perspective”. In Discourse Studies, Vol. 8, No. 5. 675-703
Online version: http://dis.sagepub.com/cgi/content/abstract/8/5/675

One Response to “The concept of “dialogue” in cross-linguistic and cross-cultural perspective by Anna Wierzbicka”

  1. Natacha scrive:

    A proposito di parole e concetti che si portano appresso il loro “bagaglio di connotazioni”, ho scoperto leggendo un paper di Ting-Toomey e Kurogi che l’ideogramma cinese per “listening” significa “listening with your ears, eyes and one heart” (1998:204). Ovvio che se lo traduciamo con “ascoltare” la maggior parte del significato resta in Cina!

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