Traduzione e Interpretazione

“Per una fenomenologia del Tradurre”

nasi2009.115x150Lo sapevate che la parola “traduzione”, che usiamo solitamente per indicare la copia fedele di un testo in un’altra lingua, in realtà ha all’origine l’idea non tanto di copia ma di spostamento, di trasferimento?

Come scrive, o meglio dice visto che si tratta della trascrizione di un suo discorso, il grande Emilio Mattioli nel volume a cura di Franco Nasi e Marc Silver

“I verbi greci che indicano il tradurre sono composti con meta, come metafero. Mi permetto di soffermarmi proprio su metafero perché ha ovviamente un’etimologia comune con metafora, la qual cosa implica che ab origine, e quindi anche nella cultura greca, c’è un’idea di tradurre che in qualche modo si lega a quella di metafora, cioè dello spostamento, del traslato. […] a me preme soltanto mettere in luce che la vecchia idea di traduzione come calco fedele dell’originale, come copia – idea che è stata ripetuta incessantemente e che ha pesato sulla nostra tradizione culturale – non è nemmeno giustificata dai significati stessi dei vocaboli che sono stati usati per indicare la traduzione. È mia intenzione insinuare filologicamente il sospetto sulla debolezza di certe posizioni, stancamente ripetute, che insistono sulle coppie famose dei concetti come fedele e libero, fedele allo spirito fedele alla lettera. Queste coppie sono retaggi di un’idea del tradurre rinsecchita e stereotipata.” (Nasi & Silver, 2009: 194)

Come non essere d’accordo con Mattioli, e come non invitarvi a leggere un volume che merita anche solo per la cornice che ospita contributi variamente interessanti: l’introduzione di Franco Nasi e l’intervento inedito di Mattioli da cui è tratta la mia citazione.

La prima, con lo stile pulito ed evocativo del Nasi di “Poetiche in transito” e de “La malinconia del traduttore”, accompagna piano all’interno del volume e ne ripercorre le origini, giustificando anche la scelta di un titolo dove ogni parola ha un suo perché. A cominciare dal “Per”, che insieme a “intorno a”, “sulla” e simili indica “che si cercherà di dare un apporto che non risolve, ma aiuta a comprendere la complessità. E la traduzione è certo una questione complessa, che non riguarda solo le lingue, ma le culture; non è insomma un problema strettamente linguistico, ma anche etico, politico, estetico” (Nasi, 2009: 10). Un “per” che, lo ammetto, mi ha fatto davvero riflettere (ebbene sì, ai traduttori interpreti linguisti succede anche di soffermarsi a pensare a lungo su una sola brevissima parola), tanto che, anche se forse nessuno ci ha fatto caso, i miei auguri natalizi iniziavano così: Per un Natale di luce…

Il secondo, con i tratti di un’oralità che si riformula e che tornando sugli stessi concetti li snocciola e li chiarisce, è un intervento straordinario di Mattioli. Ha la densità di riferimenti mirabili, tra cui sottolineerei la citazione di P. Valéry tratta da “Variazioni sulle Bucoliche”, lì dove Valéry afferma che il nostro modo di parlare si modifica a seconda di tanti fattori: il nostro interlocutore, le nostre intenzioni comunicative, il nostro tempo (sempre meno al giorno d’oggi) etc. Tanto che abbiamo “un linguaggio per noi stessi, da cui si distaccano, più o meno, le altre maniere di parlare; abbiamo un linguaggio per i nostri famigliari; uno per le relazioni generali; uno per la tribuna; c’è un linguaggio per l’amore; uno per la collera; uno per il comando e uno per la preghiera; c’è, ancora, un linguaggio per la poesia e uno per la prosa…” (Valéry, 1990: 15-16).

Ora, non so cosa ne pensiate voi, ma queste parole suscitano in me due ordini di riflessione.

Mi viene anzitutto da dire che, purtroppo, ho come la sensazione di usare solo una gamma limitata di questi linguaggi, di sfruttare solo in minima parte le potenzialità di lingue come l’Italiano, il Francese, l’Inglese. Tanto che, a volte, mi sento davvero fortunata quando, in cabina, presto la mia voce ad una persona importante, una per la quale ho l’occasione di usare un bell’Italiano, un bel Francese, un bell’Inglese. Non vi capita mai di provare soddisfazione quando pronunciate una bella collocazione? Quando spontaneamente producete l’aggettivo che più calza? La struttura che meglio esprime? C’è un vero godimento in tutto questo, nella ricchezza a fronte di un impoverimento collettivo, nell’uso di un bel periodo ipotetico tradizionale a fronte di un indicativo imperante.. Non è così?? Ditemi che non sono pazza!

La seconda riflessione riguarda, più nello specifico, il linguaggio dell’amore… Perché troppo spesso siamo sordi al linguaggio d’amore di chi ci sta dinnanzi. Proiettiamo sull’altro le nostre aspettative, i gesti e le parole che corrispondono al nostro modo di dire “Ti amo”. E siamo inevitabilmente sordi al linguaggio dell’altro, che molto probabilmente avrà altri modi per dirlo. Sembra poca cosa, ma credo che una volta capito questo, possiamo evitarci tante aspettative disattese, tante piccole delusioni e incomprensioni che incrinano un rapporto dove ciascuno si aspetta che l’altro parli la propria “lingua”.

Se è vero, come lo diceva Mattioli, che la traduzione è uno spostamento, bè allora credo che anche nella sfera privata il segreto sia andare verso e non sempre aspettare che l’altro dica, faccia, capisca. Perché potrebbe non dire, fare né capire mai ;)

PS Quello che c’è dentro la cornice Introduzione di Nasi e Intevento di Mattioli è tutto da scoprire, soprattutto l’articolo di Silver ;)

2 Responses to ““Per una fenomenologia del Tradurre””

  1. Ilaria scrive:

    Non vi capita mai di provare soddisfazione quando pronunciate una bella collocazione? Quando spontaneamente producete l’aggettivo che più calza? La struttura che meglio esprime?

    Certo che mi capita, e anche spesso! :)

  2. Michele scrive:

    Come non essere d’accordo! espressioni quali “traduzione fedele”, “traduzione libera”, “copia fedele di un testo originale” sono tutte parole un tempo usate e abusate, ma che per fortuna iniziano a essere eliminate dalle trattazioni scientifiche.. Mi ricordo quando in una delle primissime lezioni di teoria della traduzione ci venne detto: “Fedele…ma fedele a cosa!? ‘fedele’ non vuol dire proprio un bel niente! e lo stesso vale per ‘traduzione libera’”, tanto per fare un esempio.. Potrei stare ore a parlare degli pseudo-significati attribuiti alle parole “fedele” e “libero” e dimostrare quanto queste siano vuote di significato e illusorie.. Mi viene in mente un esempio che più volte ci hanno fatto a lezione di traduzione cinese, dove in un testo era scritto “[questo materiale] ha la stessa consistenza del doufu”. Qual’è la traduzione “fedele” [ORRORE!!] di doufu?

    Il mio personalissimo punto di vista a riguardo è che ci siano ancora troppi traduttori (anche professionisti) che reputano una traduzione letterale una traduzione più “attinente all’originale”, più “fedele al testo originale”. E’ come se notassi un certo “senso di colpa” nel traduttore/interprete che tenta di “staccarsi” dal “testo originale”. La bravura del professionista, a mio avviso, sta invece proprio nel saper calibrare precisamente la misura con cui staccarsi dalle parole per esprimere meglio il senso voluto dall’autore..

    Quanto al concetto di trasposizione e di non-copia introdotto dal verbo “metafero”, mi pare interessante ricordare che ormai non si parla più di “testo originale”-”testo tradotto”, e per fortuna si parla sempre meno anche di “testo di partenza”-”testo d’arrivo”, con buona pace di Catford. “Prototesto” e “metatesto”, infatti, mi sembrano essere termini più consoni al processo semiotico della traduzione.

    Un saluto a tutti, sperando che il dibattito non si arresti qui!

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