Traduzione e Interpretazione

Revisiting the Interpreter’s role di Claudia Angelelli

From ancient Egypt to the 21st century, interpreters have enabled communication between speakers of minority and majority languages. This has allowed them to either channel information or act as gatekeepers by exercising their agency. Interestingly, these powerful individuals have, more often than not, been depicted as invisible. (p. 1)

Come lo dice il titolo stesso, il libro di Claudia Angelelli si propone di rivedere la figura dell’interprete alla luce degli ultimi studi nel settore e delle diverse percezioni che gli interpreti stessi hanno del loro lavoro.

Similmente a Gentile, Ozilins e Vazakakos nel loro Liaison Interpreting, la Angelelli inizia il suo libro con un “overview of the field”, proponendosi come un’utile punto di riferimento per chi voglia ripercorrere la storia dell’interpretazione dai suoi esordi ai giorni nostri (al fine, ad esempio, di scrivere il primo capitolo introduttivo di una tesi in materia).

Nel secondo capitolo, l’autrice tenta poi di aprire il cerchio chiuso di un settore che negli anni ha completamente taglliato fuori la teoria e la ricerca. Un settore, quello dell’interpretazione, che è stato alimentato dalle associazioni di categoria, dagli interpreti professionisti e dalle scuole nate per formarli, senza accogliere apporti esterni da campi correlati quali, ad esempio, il bilinguismo, l’antropologia, la sociolinguistica o la comunicazione tra le culture.

Dopo aver dimostrato il limite di questo “closed circle”, Angelelli lo contamina con teorie sociologiche, sociali e di antropologia linguistica per poi introdurre il suo progetto IPRI. Acronimo di Interpreter’s Interpersonal Role Inventory, questo progetto pilota cerca di porre rimedio al fatto che sappiamo ben poco di come gli interpreti professionisti percepiscono il loro lavoro.

Lo fa tramite un questionario ben strutturato e dei calcoli statistici che Angelelli spiega con dovizia di dettagli.

Per concludere, infine, che l’invisibilità sostenuta per decenni deve essere rivisitata, nella pratica professionale così come nella creazione di curricula che rendano lo studente “better-equipped for a career as a visible, powerful, culturally-sensitive professional” (p. 94).

Questo sarà possibile solo quando si cesserà di prescrivere come l’interprete dovrebbe essere e si comincerà a descrivere con sistematicità e rigore quello che l’interprete già fa nel mondo del lavoro.

Il che è, del resto, anche l’obiettivo del mio progetto di dottorato all’università di Modena e Reggio Emilia.

Leave a Reply