Traduzione e Interpretazione

Lezioni 5 giugno: Carli-Favilla-Palumbo

Key Terms in Translation Studies:  (Key Terms) Paperback book by

Libro di G. Palumbo

11.00-12.30: Augusto Carli ed Elena Favilla, Analisi della variazione sociolinguistica
14.00-17.00: Giuseppe Palumbo, Nuovi approcci interdisciplinari nei translation studies

Oggi sono davvero stanca. Ma non posso non fissare su daily gli appunti delle due lezioni di oggi, perché sotto punti di vista diversi sono entrambe fondamentali per le mie ricerche e per chiunque si interessi di lingua/e.

Scrivo innanzitutto per me, quindi, chiedendo a priori scusa per una forma non all’altezza dei contenuti proposti. Scrivo, come sempre, anche per i colleghi assenti, invitando chi mi segue d’oltralpe a contattare il Prof. Palumbo per avere qualche dritta su come avvicinarsi ai corpora :) Scrivo, da ultimo, un po’ per tutti, perché se è vero come diceva Molière e ricordava oggi Carli che “tutto è linguistica”, allora è anche vero che tutti possono trovare in quello che segue qualcosa che li interpelli.

Partiamo, come lo hanno fatto in un brillante pas de deux i Professori Augusto Carli e Elena Favilla, da cosa siano la glottologia e la linguistica, due realtà spesso confuse in virtù del comune oggetto d’indagine.

La glottologia è la linguistica storica, quella che per intendersi ricostruisce la genealogia delle lingue. La linguistica è il lavoro scientifico fatto sulla e attraverso la lingua. Entrambe studiano il linguaggio, una facoltà specifica dell’homo sapiens sapiens che è nata dal fatto che l’uomo è un essere sociale che solo non può vivere.

E qui è partita una raffica di domande da parte di noi dottorandi. Per la prima volta con tale forza, l’interesse del “pubblico” per la disciplina ha impedito ai professori di seguire il programma prestabilito. Tante interruzioni, tutte felicemente accolte ho scoperto in separata sede, hanno costellato la “griglia” proposta da questa vincente accoppiata di prof.

Si è riflettuto, ad esempio, su come la facoltà del linguaggio sembri associata all’area sinistra del cervello, ma questo indipendentemente dal canale. Tanto che anche i sordo-muti, che pur non pronunciano parole, quando comunicano attivano quella parte del cervello. Da questa riflessione è nata una discussione su cosa sia la comunicazione, e sulle sue componenti verbale, non verbale e para verbale, e soprattutto sul perché la componente verbale abbia preso, nell’uomo, il netto sopravvento sulle altre due.

Carli suggeriva come questa prevalenza sia spiegata dall’economicità del verbale rispetto alle altre due forme e la Favilla sottolineava come anche alcuni animali, che pur non usano il linguaggio, attivino la stessa area sinistra ma per fare altro.

Insomma, regna ancora il mistero su quella che è, forse, la principale caratteristica dell’uomo. Quello che si sa è che esiste un periodo critico, che a seconda dei pareri degli esperti va dai 5 ai 12 anni, nel quale l’uomo attiva la funzione del linguaggio. Se questo qualcosa di misterioso dell’emisfero sinistro non viene sollecitato entro i 12 (e forse anche meno) anni, allora l’uomo non sviluppa la capacità linguistica (vedi tutti i casi di bambini “selvaggi”).

Come una granata, da queste riflessioni ne sono esplose molte altre. Non posso certo seguire tutti i percorsi disegnati dalle nostre domande e dalle loro risposte, ma fornisco a voi e a me stessa un sunto schematico di quanto è emerso.

- gli uomini sono tutti uguali e monotonamente uguali – diceva Carli – tanto che si accaniscono a trovare delle differenze, anche minime, tra di loro;

- per acquisire un linguaggio non deve esserci necessariamente un insegnamento esplicito, basta un’esposizione ad un input linguistico. Qui occorre però precisare che esiste una grossa differenza tra acquisizione e apprendimento, laddove la prima è il processo che avviene nei primi 12 anni di età circa, mentre la seconda è quello che noi comunemente chiamiamo “studiare una lingua straniera”;

- negli anni i soggetti possono sviluppare dei filtri che ostacolano l’apprendimento di una L2. Immaginate, per praticità, un ragazzo di 30 anni che mostri una forte resistenza all’apprendimento della lingua inglese in contesti classici come la “classe”. Lo stesso ragazzo mostra, invece, una grande facilità ad apprendere il francese in “casa”, dove è sommerso di input linguistici diversi e dove l’apprendimento ha una forte componente affettiva. Ebbene, per mia sorpresa quotidiana, visto che questo ragazzo è il mio, il soggetto dimostra una grande facilità ad imparare una lingua che, così, non è in alcun modo associata alla grammatica, ma vissuta nell’esperienza diretta. Difficile è per lui imparare in maniera sistematica, ad esempio, la coniugazione del verbo essere, avere o di quelli del primo gruppo. Mentre nei momenti più impensati, tirerà fuori con facilità un’espressione, sentita chissà dove e chissà quando, che è perfetta per una determinata situazione comunicativa (vi darò maggiori dettagli mano a mano che li scopro :) );

- quando il bambino va alla scuola elementare (5-6 anni di età) il processo di acquisizione linguistica è già completo [quindi, genitori, vedete di parlare decentemente, che sennò se vostro figlio non coniuga naturalmente i verbi al congiuntivo è in parte colpa vostra!!];

- l’acquisizione non è pura imitazione, il che è dimostrato da “errori” di lingua come “dicete”, da neologismi come “budinaio” e dalla produzione di frasi nuove;

- il gene FOXP2 è quello responsabile della capacità linguistica;

- complesso è il rapporto tra linguaggio e pensiero, tra lessico e pensiero e tra sintassi e pensiero e comunque sia non esiste una relazione 1:1 tra lingua e pensiero, il che è abbastanza ovvio per chi faccia traduzioni;

- il relativismo è la qualità imprescindibile di ogni attività scientifica, e la perversione del nazionalismo è stata proprio quella di promuovere 1 popolo, 1 nazione, 1 lingua, mostrandosi quindi intollerante verso la diversità e molteplicità linguistica.

Fautore del pluralismo a parole e a fatti, poiché ha una bellissima pronuncia in francese e in inglese, Augusto Carli ha concluso questa lezione a quattro mani sottolineando come la competenza linguistica sia ben distinta dalla competenza comunicativa. Se è vero che la prima si acquisisce nei primi anni di età, la seconda è un processo in fieri che non si esaurisce mai.

Il che si ricollega alla malinconia del traduttore raccontata da Nasi, e ai nuovi approcci nei translation studies di Palumbo, visto che la traduzione è parimenti un divenire e che la conoscenza di più lingue da parte del traduttore-interprete non fa che amplificare l’imperfezione della competenza comunicativa all’ennesima potenza.

Ora, ho cominciato dicendo che sia la lezione di Carli e Favilla di cui sopra che quella di Palumbo di cui sotto sono fondamentali per le mie ricerche e per qualsivoglia linguista. Vediamo quindi in che senso Palumbo mi ha arricchita e interpellata oggi.

Mentre scrivo a mente fredda mi vengono in mente due cose.

La prima è un dettaglio tecnico, che l’atto presente di scrittura richiama alla mia mente. Palumbo ci ha raccontato, infatti, che nell’ambito degli studi empirici sulla traduzione, quelli che sempre più si concentrano sul soggetto, vengono utilizzati a) eye tracker per verificare su cosa, di un testo, si posa maggiormente lo sguardo di un traduttore; b) software specifici che permettono di ricostruire le varie versioni del traduttore. Ci penso ora che, vista la stanchezza e l’ambiente decisamente poco favorevole del treno, non faccio altro che tornare su quel che ho scritto, cancellando, aggiungendo e apportando delle modifiche al testo. Ora non sapevo, e la cosa mi sembra interessantissima, che si potessero recuperare tutti questi “movimenti” sul testo e penso condividiate il mio entusiasmo rispetto a dei software che molto possono dirci di come il traduttore lavora ed arriva alla versione finale.

La seconda cosa che mi rimbomba in testa mentre cerco di ricostruire il contenuto della lezione è che per la prima volta, dopo 7 anni che faccio translation e interpreting studies, qualcuno mi ha fornito una visione d’insieme, un quadro generale sulle diverse posizioni e i diversi approcci possibili.

Solo oggi mi sono resa conto di come, ovviamente direte voi, ogni professore mi abbia trasmesso e inculcato la sua visione delle cose, senza preoccuparsi di fornirmi delle alternative tra cui scegliere la mia strada. Ringrazio quindi il Professor Palumbo per avermi in un certo qual modo aperto gli occhi, o se non altro fornito degli strumenti (tra cui tutta una serie di volumi che citerò tra poco) per riscegliere in maniera più critica ciò che ho abbracciato fino ad ora, o magari per capire che la mia strada è un’altra. E ringrazio Guy Aston, che questo ha cercato di dirmi più di 5 mesi fa, anche se lo capisco appieno solo ora. Sii critica rispetto a quello che vedi, senti e leggi – mi ha detto in una delle nostre conversazioni alla Bateson – cosa che non è semplice da fare quando ci si sente sovrastare da una materia che non si padroneggia, quando ci si sente troppo “piccoli” per giudicare criticamente certi contenuti e certe posizioni, per affermare la propria stradina tra le autostrade tracciate dagli altri.

Ma sto imparando piano piano anche io e per quanto sia un processo infinito già posso dire di essere “migliorata”. Se infatti leggete le Book Reviews, vi rendete conto di come sono passata da un ossequioso tribute all’autore ad una mia visione della cosa.

Tornando a Palumbo, visto che sono già a Forlì e devo stringere, vi riassumo i punti toccati così che possiate scorgere, in filigrana, l’evoluzione di una disciplina, quella dei translation studies, che è partita insieme agli interpreting studies, per poi marcare una netta divisione, e infine ritrovare un’unità. Tanto che alcuni apporti degli interpreting studies, come ad esempio l’attenzione rivolta al soggetto, sono stati integrati nei translation studies, il cui oggetto di studio è per così dire passato dalla lingua (trasferimento linguistico), ai testi (comunicazione), alle persone (sociologia della traduzione e agency).

- albori della disciplina negli anni 40, quando si afferma la fede di poter tradurre;

- fino agli anni 70 la traduzione è stata vista come un ambito della linguistica applicata;

- il libro “Stylistique comparée du français et de l’anglais” ha fatto scuola e fornito i nomi di processi traduttivi che ancor oggi così vengono designati;

- agli inizi della disciplina c’era un approccio prescrittivo (si cercavano degli equivalenti) che ha poi negli anni 70 lasciato spazio ad un approccio descrittivo;

- una tappa importante in questo processo di evoluzione verso il descrittivo è rappresentata dalla formulazione di equivalenti dinamici o funzionali, quando Nida ha cominciato ad insistere sull’importanza dell’effetto prodotto sul destinatario;

- Holmes e Toury sono stati tra i primi a dire che la traduzione deve essere osservata. Al primo si deve, poi, la celebre map of translation studies, dove lo studioso distingue tra Thorical TS, Descriptive TS e Applied TS. Secondo Holmes, e questo è ad oggi criticato e criticabile, solo i TTS e i DTS sono “pure branches of research”, quindi la didattica della traduzione, la valutazione della qualità o la compilazione di dizionari non sarebbero secondo lui ricerca pura. Aldilà di alcune posizioni più o meno condivisibili, Holmes e Toury hanno avuto il merito di mettere in evidenza come la ricerca sulla traduzione debba essere empirica, cosa su cui sembrano concordare entrambi i filoni attuali dei translation studies, quello linguistico-descrittivo e quello culturalista;

- studiare la traduzione significa studiare delle relazioni molteplici:
o Quella tra testo di partenza e testo di arrivo
o Quella tra testo di arrivo e testi non tradotti nella stessa lingua di arrivo
o Quella tra traduzione e traduttore
o Quella tra traduzione e mezzo (uomo e/o macchina)
o Quella tra traduzione e lettori (vedi discorso sulle norme traduttive)

- Pur in tutte le evoluzioni, resta il fatto che la traduzione è una questione interdisciplinare e che ad oggi è la sociologia ad avere un ruolo importante (tanto che, per dirla con il prof, le mie ricerche sono di moda :) )

- Non si traduce nel vuoto, ma sempre esiste un orizzonte traduttivo, fatto di coordinate e di vincoli, che Palumbo sta cercando di sistematizzare e che sono di ordine semiotico, sociologico e operativo. Sarà difficile, come ammetteva lui stesso oggi, stabilire se vincoli come il tempo o il compenso economico (che sono fondamentali per il traduttore di oggi) siano di tipo sociologico o operativo, perché in questo, come in altri casi, i vincoli sono a cavallo di più etichette e difficilmente sistematizzabili.

Aspettando il paper o il volume in cui, mi auguro presto, Palumbo risolverà questi interrogativi, ecco una serie di libri che dovremmo procurarci:

Memes of translation * e l’articolo “Translation as an object of research” * di Andrew Chesterman

Teaching and researching translation * di Basil Hatim

Key terms in translation studies di Giuseppe Palumbo

Encyclopedia of translation studies della Routledge

The Translation studies reader di Venuti

Dictionary of translation studies di Shuttleworth

The map. A beginners guide to doing research in translation studies di Chesterman e Williams

One Response to “Lezioni 5 giugno: Carli-Favilla-Palumbo”

  1. Francesco scrive:

    Sono pronto a stupirvi, fra qualche mese pubblicherò il mio primo post interamnete in Francese su daily!
    Francesco

Leave a Reply