Da tempo meditavo di creare una nuova sezione dedicata ai miei viaggi, ma pena il fatto di esser presa per una trip advisor, o di perdere la professionalità di questo Blog, ho sempre rinunciato all’idea.
Fino al giorno in cui, assaporando An intimate History of Humanity di Zeodore Zeldin, non ho letto tra le righe la conferma di propositi che serbavo da mesi.
Travellers have been a nation of a special kind, without frontiers, and they are becoming the largest nation in the world, as travel becomes no longer a mere distraction but an essential part of a whole person’s diet.
(1994: 312)
Per quanto non lo si veda dal mio Curriculum, che ho in parte epurato da esperienze lavorative non professionalizzanti, faccio la stagione estiva da quando ho 15 anni. Non perché vivessi nell’indigenza, i miei genitori hanno sempre provveduto al necessario (e anche a qualcosa di più). Ma perché sentivo il bisogno di guadagnarmi da vivere, di lavorare per permettermi di investire in ciò che amavo di più. Niente fondi, né obbligazioni, cosa avete capito!? Per me investire ha sempre significato spendere per le mie vacanze.
Tutti i miei soldi sono finiti in città come Londra, Parigi, Barcellona, Strasburgo, Amsterdam, Budapest, Anversa, Avignone, New York, Lisbona, ma anche in piccole città di Umbria e Toscana o fra le cime delle mie amate Dolomiti. Questo perché, non diversamente da Zeldin, penso che il viaggio sia il cibo immancabile su ogni buona tavola, quell’esperienza che apre gli orizzonti e permette di guardare se stessi, la propria vita e il proprio paese, grande o piccolo che sia, con altri occhi.
Sarà perché sono nata all’estero, in una Bruxelles che guardo da lontano, ma amo questa dimensione di lontananza. Amo essere altrove e sentirmi “a casa”, quella casa che si sposta con me e che si modifica nell’incontro con l’Altro. “Casa mia” non è a Bruxelles, e nemmeno a Bellaria. “Casa mia” è un’emozione che posso ricreare ovunque, quando col tempo una strada smette di essere sconosciuta e diventa la strada di casa, quando i volti smettono di essere ostili e diventano amici. “Casa mia” sono io che, viaggiando e conoscendo altro, scopro qualcosa di me.
A journey is successful when the traveller returns as an ambassador for the country he has visited, just as an actor is most successful when he enters into a character and discovers something of himself in the part he plays.
(1994: 313)
É incredibile come le pagine di un libro possano parlare, talvolta. Se solo penso che quella di Zeldin era una delle letture per il PhD, una di quelle che avrebbe dovuto finire tra le Book Reviews. In realtà, in virtù della serendipity che sempre condisce la mia vita e il mio lavoro, questo libro non finirà né nell’una né nell’altra categoria.
Sarà il libro che avrà dato il “la” a questa nuova sezione. E sarà la dimostrazione di come la ricerca non proceda per compartimenti stagni, ma viva di cross-fertilizations tra esperienze e discipline, e di multiple lenses che il ricercatore indossa per vedere il mondo da prospettive diverse.
Infine, a giustificazione del fatto che in questa categoria potrebbero rientrare esperienze molto eterogenee,
Travel does not necessarily involve going to distant parts.
(1994: 313)
L’uomo è “viator” innanzitutto dentro di sé, nella sua storia fatta di incontri e dialoghi con uomini di ogni luogo. E di tutti questi “viaggi”, la presente sezione vuole lasciare una traccia, a riprova di come tutto contribuisca a renderci quello che siamo, nella vita privata come nel lavoro.
Bellissimo post, mi è piaciuto davvero tanto!
Anch’io sono stata a Budapest, e ci ritornerei volentieri!